In un’intervista Giuseppe Lavenia, psicologo, psicoterapeuta, presidente dell’associazione Di.Te., autore di “Mio figlio non riesce a stare senza smartphone” e “Le dipendenze Tecnologiche. Valutazione, diagnosi e cura” editi da Giunti, illustra le motivazioni dietro l’evento “Disconnect Day – una giornata senza smartphone” svoltasi il 6 maggio a Fabriano (AN). Lavenia sottolinea come, anche prima della pandemia, l’uso intensivo di smartphone e dispositivi digitali fosse dilagato in ampie fasce di popolazione, ponendo molti rischi di utilizzo improprio, dipendenza, specie per i più piccoli. All’aumento di relazioni mediate dai social e dai dispositivi digitali, inoltre, corrisponde spesso un impoverimento delle relazioni in persona. Di seguito si riportano alcuni brani dell’intervista, la cui versione integrale è consultabile sul sito di interris.
“Come è nata l’idea di Disconnect Day?
“E’ partita come una provocazione, ma col tempo è diventata una sorta di necessità: ritrovarsi ed avere un momento di detox dalla tecnologia per riappropriarci di tutto ciò che abbiamo vicino e intorno a noi, fuori dallo schermo. Serve insomma per prenderci un momento di libertà dalla vita online. Noi siamo tutti iper connessi e abituati ad utilizzare per molte ore al giorno lo smartphone. E’ questa un’abitudine che in certi casi diventa abuso o vera e propria dipendenza. Siamo tutti distratti alla vita reale. Le distrazioni digitali – dal web alle chat, dai social alle news – non permettono di accorgerci delle bellezze che abbiamo intorno a noi: le bellezze artistiche della nostra città o quelle naturalistiche dell’ambiente che ci circonda. Ma gli smartphone ci distraggono anche dagli amici, dai rapporti umani, dalle persone care, dai contatti vis a vis, non mediati da mezzi tecnologici. L’evento è nato dunque dalla necessità di fare una riflessione sull’utilizzo della tecnologia, su come noi ci rapportiamo ad essa e su come la gestiamo nel quotidiano”.
Il Covid ha incrementato questo sovrautilizzo della tecnologia?
“Certamente sì. Il Disconnect Day serve anche a far riflettere sul fatto che la nostra vita è pensata per essere sociale e non social. La differenza sembra banale ma è sostanziale. In questi anni – anche a causa dei cambiamenti imposti dalla pandemia – abbiamo infatti vissuto una vita molto più social che sociale. E’ ora di riequilibrare le cose”.
C’è stato un episodio specifico – di cronaca, di vita quotidiana o professionale – che l’ha ispirata alla creazione del Disconnect Day?
“Ce ne sono stati moltissimi, purtroppo. A partire dai tanti casi di cyberbullismo che quotidianamente registriamo attraverso l’Associazione Nazionale Di. Te. il cui obiettivo è quello di porsi come una risorsa professionale, innovativa e di qualità dedicata alla sensibilizzazione, alla prevenzione e al trattamento delle dipendenze tecnologiche, del gioco d’azzardo patologico e dei fenomeni internet correlati, come ad esempio il cyberbullismo. Nello specifico, i professionisti dell’Associazione si occupano a vario titolo di dipendenze tecnologiche e dei fenomeni correlati all’uso disfunzionale di internet dal 2002. Ma anche i casi di cronaca legati alle famigerate challenge, alcune delle quali finite in tragedia. Un 30% di bambini della fascia 9-13 anni (che per legge non potrebbero neppure usare autonomamente i social fino a 14 anni) hanno partecipato ad una challenge pericolosa. Ne girano tante in rete. Dopo l’ultima nota come ‘cicatrice francese’ – una ‘sfida’ che ha spopolato su Tik Tok in cui si invitano i ragazzi a procurarsi un atto autolesionistico: un livido sul volto autoinflitto con un forte pizzicotto che lascia il segno per alcune settimane e che ha preoccupato non pochi dirigenti scolastici delle scuole medie – ora ce n’è una ben più pericolosa legata alla sessualità”