Giovani e criminalizzazione

Secondo Ivan Severi, Antropologo, Università della Strada Gruppo Abele, oggi si corre il rischio, in una società sempre più caratterizzata e definita da persone adulte, di rendere ancora più marginali, di quanto non lo siano demograficamente, i giovani. In un articolo sul sito di Fuori Luogo.it si riflette su come un paese sempre più dominato da anziani ( un quarto della popolazione è ultrasessantacinquenne)  stia cercando sempre più di connotare negativamente i giovani per certi comportamenti. 

“Nonostante il loro numero sempre più esiguo i giovani costituiscono un polo d’attrazione irresistibile per i media italiani, tanto che si è ritenuto necessario trovare una categoria più specifica della generalista e già discriminatoria youth gang utilizzata in tutti gli stati occidentali. In Italia si è coniata la dicitura “baby gang”, forse con l’intenzione di suscitare maggiore scandalo richiamando l’accostamento tra innocenza e devianza”.
Secondo Severi non siamo di fronte ad un fenomeno nuovo, visto che la “(…) criminalizzazione della “gioventù” accompagna la categoria fin da quando è stata forgiata. Una presenza sempre più evidente con l’inurbamento delle città negli anni ’50 e che si è caratterizzata fin dall’inizio da stili di consumo inediti. Modalità di stare nella citta che, “(…) oltre a essere identitarie, rappresentano l’unico livello di presenza pubblica e quindi di eventuale manifestazione del dissenso per chi non partecipa del tessuto produttivo”.
Severi, in qualità di ricercatore in un progetto del Gruppo Abele sui comportamenti a rischio di ritiro sociale, ha approfondito il tema dei pregiudizi che guidano gli adulti nel comprendere il mondo giovanile.
Attraverso alcuni focus group territoriali è emerso che gli adulti “(…) tracciano i confini di ciò che è lecito e ciò che non lo è, proiettando aspettative nei confronti dei giovani frutto di un mix tra nostalgia adolescenziale e giudizio morale. Ai giovani è lasciata la possibilità di accesso allo spazio pubblico ma secondo modalità precise, che li vogliono soggetti docili e passivi, né troppo assenti, né troppo presenti”.
Secondo il ricercatore è in atto un processo di normalizzazione dei comportamenti giovanili, anche attraverso l’introduzione di alcune tipologie di reato, che rischiano di far “(…) scomparire come entità, rendendoli semplici proiezioni di ciò che una società di ultracinquantenni ha immaginato per loro”.

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