HIKIKOMORI : COME AIUTARE GLI ADOLESCENTI RECLUSI

Quando i ragazzi si chiudono in casa e rifiutano ogni aiuto. E i genitori non sanno come affrontare il problema. E’ uno dei temi affrontati nel convegnosvoltosi a Rimini #Supereroi fragili, adolescenti oggi tra disagi e opportunità.

Sono padroni degli strumenti tecnologici ma ne sono anche vittime. Gli adolescenti di oggi sanno come si usano i device e come trovare tutto in Rete ma manca loro l’esperienza e la malizia per cavarsela, nella vita reale come in quella virtuale, evitando i pericoli quando gli si presentano. Il loro rapporto con la tecnologia, che qualche volta può trasformarsi in un rifugio sicuro e confortevole, è uno degli aspetti analizzati nel convegno organizzato dal Centro Studi Erickson.

L’età della sperimentazione
“Gli adolescenti sono nell’età della sperimentazione identitaria, perché devono capire chi sono. I media sono occasioni per sperimentare, anche le sensazioni, per comprendere i propri limiti”, spiega Simone Mulargia, professore aggregato presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza Università di Roma, dove insegna Sociologia della Comunicazione, Internet e Social Media Studies e Teoria e Analisi delle Audience. “Capire i propri limiti non è sbagliato perché fa parte della crescita. Diventa sbagliato quando i ragazzi vengono lasciati soli perché, è bene ricordarlo, i media sono un’opportunità ma anche un pericolo: più i ragazzi stanno in Rete più aumentano le opportunità ma anche i pericoli”.

Cosa fare
Ma come si fa a proteggere questi “supereroi fragili”? Occorre costruire insieme un percorso per proteggersi dai pericoli quando questi gli si presentano, che dia loro degli strumenti per corazzarsi. “Il primo passo è dialogare coi genitori perché è vero che gli adolescenti hanno le competenze tecniche per muoversi sul web e nei social ma non hanno le competenze strategiche e informative: non sanno come costruirsi un percorso informativo” spiega l’esperto. “Per esempio non sanno distinguere le fake news dalle notizie vere. Un modo per farlo per esempio è leggere in classe il caro vecchio quotidiano”.

Il ruolo dei genitori
Per costruirsi queste competenze i genitori sono fondamentali. E d’altra parte questi hanno sete di sapere. Tra le prime domande che si pongono e che pongono agli addetti ai lavori è ‘quanto tempo i figli possono passare davanti allo schermo ogni giorno?’. Le risposte che arrivano loro sono spesso contraddittorie. “Su questo punto noi esperti in effetti siamo responsabili perché la tecnologia corre e ogni settimana vengono valutati nuovi aspetti” dice Mulargia. “Dovremmo fare chiarezza prima di parlare coi genitori altrimenti non facciamo altro che confonderli ma è maledettamente complicato anche per noi stare dietro alle continue evoluzioni tecnologiche. Si possono individuare però alcuni elementi fondamentali per aiutare i ragazzi a crearsi quella corazza di cui parlavo prima: ascolto, compresenza e sapere sempre cosa fanno quando stanno davanti allo schermo. I genitori non devono smettere di fare gli adulti perché anche se i figli nascono ‘digitali’ e sanno fare tanto, restano comunque dei ragazzi e hanno bisogni dei grandi. Certo, talvolta è comodo lasciare i figli alla cosiddetta “bambinaia virtuale” ma bisogna impegnarsi nel cercare di farne a meno e soprattutto controllarli quando usano i media, aumentando, man mano che crescono, la loro sfera di autonomia e sperimentazione”.

La sindrome che arriva dal Giappone
La tecnologia può diventare anche una sorta di palliativo nell’adolescenza, specialmente per quei ragazzi con carattere introverso e dotati di una spiccata sensibilità, che tendono a isolarsi perché non condividono i valori della società in cui vivono. Tendono quindi a rinchiudersi non solo in se stessi ma anche nella loro camera e adottano come unica finestra virtuale lo schermo del pc o del telefono. Questo fenomeno che in Giappone è diventata una vera e propria sindrome, prende il nome di hikikomori.

“Spesso si confonde l’hikikomori con la dipendenza dalla tecnologia, mentre l’abuso della tecnologia è solo una conseguenza, non una causa di questo fenomeno”, afferma Marco Crepaldi, specializzato in psicologia sociale e comunicazione digitale, che nel 2017 ha fondato l’Associazione Nazionale Hikikomori Italia, di cui è presidente.

“Il giovane, di solito adolescente, si isola completamente e trova nel web un rifugio ma non sviluppa dipendenza: togliergli il computer non è la strada per farlo uscire dall’isolamento”. Crepaldi ha deciso di fondare l’associazione Hikikomori Italia perché si è reso conto che nel nostro Paese sono tantissimi i genitori che hanno figli con questo disturbo del comportamento. Oggi l’associazione organizza incontri nelle scuole e conta migliaia di genitori. Ma in Italia ci sono centinaia di migliaia di casi potenziali, che secondo l’esperto emergeranno nei prossimi anni. Perciò l’associazione ha creato 50-60 gruppi distribuiti da Nord a Sud, in cui psicologi volontari aiutano le famiglie ad affrontare questo tipo di problema.

La scuola può fare la differenza
A dimostrazione che questo fenomeno ha raggiunto una portata considerevole il ministero dell’Istruzione ha creato un tavolo, di cui Crepaldi fa parte, per tracciare delle linee guida a livello nazionale per affrontarlo in modo organico. Il ruolo della scuola è infatti fondamentale nel prevenire e trattare quella che è diventata una vera e propria sindrome e che mette in crisi tutta la famiglia.

I sintomi
“Poiché non esiste una vera diagnosi è difficile per i genitori capire di cosa si tratta perché il ragazzo, solitamente tra le medie e il liceo, inizia a manifestare insofferenza nei confronti della scuola” continua Crepaldi. “E questo avviene anche se il giovane ha dei buoni voti e gli piace studiare: il disagio non è verso lo studio ma verso la socialità con i compagni e verso le performance che gli vengono richieste, anche se non esplicitamente. Spesso infatti i ragazzi hikikomori sono intelligenti ma introversi. Si sentono diversi, non si identificano con i valori della società di cui fanno parte, quindi tendono ad allontanarsene e a rinchiudersi nel loro mondo, in una dimensione in cui si trovano a proprio agio. Questo isolamento dura mediamente tre anni ma può durare anche molto di più: è facile trovare anche 40enni che non ne sono usciti perché non si sono fatti aiutare”.

Le quattro buone prassi
L’ostacolo più difficile da superare è accettare un aiuto dall’esterno, a partire dai genitori, che d’altra parte non sanno come fare. Tornare ad avere fiducia nei familiari è il primo passo per aprirsi agli altri, anche agli psicologi, agli insegnanti e a tutti coloro che li vogliono aiutare a uscire dal circolo vizioso della solitudine.
“Ecco perché è fondamentale aiutare le famiglie insegnando loro le cosiddette buone prassi” continua Crepaldi. “Prima fra tutte, quando ci si accorge che il figlio non vuole andare a scuola, occorre capire che potrebbe non essere un capriccio ma la manifestazione di un disagio. In questo caso non va riportato subito a scuola, ma bisogna iniziare ad allentare la pressione: il ritorno a scuola è l’obiettivo, non lo strumento. Va inoltre sospeso il giudizio sulla sua visione della vita e andargli incontro, comprendendo da dove origina la sua ansia, cioè nella difficoltà di stare nell’ambiente sociale della scuola. Spesso questi ragazzi diventano anche vittime di bullismo proprio per la loro diversità dal comune sentire”.

Per approfondimenti rimandiamo al canale youtube di Marco Crepaldi

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