DIPENDENZE NEL POST LOCKDOWN

«Il quadro delle dipendenze descritto dall’ultima Relazione al Parlamento è allarmante.
Un dato incontrovertibile: il lockdown è stato solo il fermo immagine di un fenomeno, quello delle dipendenze patologiche, che ha evidenziato, seppure con dinamiche differenti, la complessità e gravità del fenomeno: il dark web (web oscuro o rete oscura) è stata una danarosa “piazza di spaccio” di oppioidi sintetici e di narcotici, ma anche per l’approvvigionamento di droghe classiche come la cocaina, l’hashish o l’eroina. Per clienti di fiducia e di nicchia, il servizio a domicilio è stato garantito da pusher al soldo dei clan pronti a rivedere le proprie strategie di “marketing” per creare nuova domanda e nuovo mercato.

In questo scenario le diverse comunità terapeutiche e i centri diurni, hanno più volte lanciato un composto grido d’allarme al decisore politico e ai servizi pubblici del territorio per la fatica nel dover garantire i livelli minimi di assistenza e cura, nel mentre si sono dotati di un proprio codice etico di comportamento, adottando linee guida fai-da-te per gestire ancor più efficacemente ogni processo organizzativo teso a prevenire ogni “evento avverso”, visto che nessun protocollo scientifico è stato ufficialmente stilato. Ciononostante sono stati assicurati interventi di carattere terapeutico. Si è creata, quindi, un’impresa del “fare -con e per- senza risparmiarsi” ovvero, se si preferisce, una fabbrica della speranza: una sorta di lavoro di comunità che contrariamente a quanto si pensi, non rimanda tanto ad una condivisione di valori comuni quanto ad un concetto cardinale della terapia ambientale,con la possibilità di potersi allontanare da ambienti caratterizzati da legami patogeni sì da poter sperimentare luoghi di appropriazione di nuovi significati per la propria vita. Tanti terapeuti, in un periodo di grande incertezza e di potenziale amplificazione di angosce e sofferenze psicologiche, hanno rassicurato, accompagnato, ricucito ogni “strappo emotivo” causato dalle restrizioni.

Dunque, un patrimonio, quello delle comunità e dei centri terapeutici, che pur facendo scuola in tutta Europa e nel mondo, è stato colpevolmente rimosso da ogni interesse della politica. Non si è mossa alcuna strategia capace di favorire una maggiore attenzione a quelle vite immunodepresse a causa delle sostanze, rese ancor più precarie dalle comorbidità. A ciò vanno aggiunte una disomogeneità territoriale della gestione delle dipendenze e una sostenibilità economica fortemente pregiudicata a causa del blocco.

Col progressivo ritorno alla normalità, si corre il rischio di ricadere nel feticismo dei numeri – basti pensare ai casi di overdose delle ultime settimane – e magari a quei vecchi refrain sulla distinzione tra droghe leggere e pesanti, peraltro ben pubblicizzati da spot perniciosi sottoscritti da autorevoli scrittori e analisti del fenomeno.

Il quadro delle dipendenze descritto dall’ultima Relazione al Parlamento è allarmante: 660mila i ragazzi che hanno fatto uso nel 2018 di sostanze illegali psicoattive, 334 i decessi per overdose, 460mila le persone che necessitano di un trattamento terapeutico per dipendenza conclamata da alcool e da gioco d’azzardo, una su tre le persone che vengono intercettate e seguite dai servizi specialistici, otto su dieci i minori in carico al Servizio Sociale inviati ai centri specializzati e, dato non meno significativo, il forte divario territoriale sui servizi pubblici per le dipendenze.

In definitiva, urge un ripensamento sovrastrutturale, ovvero culturale, occorre una riflessione mirata alla costruzione di un patto intergenerazionale capace di trasformarsi in patto educativo.

L’auspicio è che si avvii una nuova azione di pensiero in grado di provocare un proficuo dibattito pubblico e politico rivolto alle prospettive future.

 

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